Nei giorni scorsi ho letto due saggi usciti da poco, che avevo visto segnalare su Twitter da persone che seguo.
Si tratta di Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana e La Gente di Leonardo Bianchi. Il primo tratta il tema della precarizzazione del lavoro, il secondo del cosiddetto gentismo (che la Treccani spiega così: atteggiamento politico di calcolata condiscendenza verso interessi, desideri, richieste presuntivamente espressi dalla gente, considerata come un insieme vasto e, sotto il profilo sociologico, indistinto).
Il legame tra le due questioni è profondo, secondo me, magari però non è così evidente. Lo spiegherei in questo modo: il peggioramento in Italia, negli ultimi 10 anni, delle condizioni del lavoro – dovuta non solo alla crisi finanziaria ma alla scelta di favorire una precarizzazione spacciata per flessibilità – si è sommato alla crisi generale di rappresentanza politica.
Ne è nato un mix fatto di protesta, in parte di astensionismo ma soprattutto di consenso a soggetti populisti-gentisti in cui hanno cercato voti soprattutto il M5s, ma anche la Lega. E perfino, sostiene Bianchi, lo stesso renzismo, almeno per un po’. Anche se poi lo stesso Matteo Renzi, con la sconfitta del 4 dicembre, è ormai fuori dall’agone. E giorni fa un sondaggio Ixé dava lo stesso Pd finito sotto il dato del 2013.
Il libro di Bianchi – il cui sottotitolo è Viaggio nell’Italia del risentimento ricostruisce la genesi del gentismo italiano – che certo è lievitato grazie al web ma che esisteva anche prima di esso – e cita vicende degli ultimi sei anni che in parte avevo rimosso o sottovalutato. Dal “precario di Montecitorio” ai cosiddetti Forconi, passando per le rivolte anti-Rom e anti-rifugiati, gli eroi della difesa-fa-da-te, i memi razzisti e le fake news sulle cooperanti rapite in Siria, il movimento anti-gender e il family day, gli antivax, Catena Umana etc etc.
È un libro senza una conclusione dichiarata, ma che comunque spiega con esempi cos’è, come si manifesta il gentismo e chi cerca di trarne vantaggio.
E non manca un riferimento al 4 dicembre 2016, la data del referendum costituzionale fortemente voluto (e perso) da Renzi. Perché, spiega Bianchi, anche la campagna referendaria, sia quella per il sì che quella per il no, fu molto giocata sull’uso del gentismo.
E veniamo a “Non è lavoro”, che è sostanzialmente un pamphlet polemico di cui è autrice Marta Fano, una consulente dell’Ocse che ha studiato a Sciences Po (ovvero l’Istituto di studi politici di Parigi), che il Foglio definisce malignamente “stella mediatica all’incrocio ideologico tra Diego Fusaro e Loretta Napoleoni”. D’altronde è una nemica dichiarata di Renzi…
È un libro agile per numero di pagine ma non altrettanto come lettura. Perché? Perché manca della capacità di raccontare compiutamente, attraverso la vita di persone in carne e ossa, quello che significa anche emotivamente il lavoro e la vita da precario. Nonostante questo limite (che limitare a narrativo non è poco: se non ti fai capire bene, il tuo sforzo è sprecato) il libro tocca tutti i punti caldi del lavoro precario: dal lavoro a chiamata ai voucher, dal lavoro gratuito al comparto della logistica, dall’alternanza scuola-lavoro ai servizi pubblici. E sostanzialmente spiega che le riforme sempre più flessibilizzanti del lavoro sono condivise in buona misura da centrosinistra e centrodestra, a partire almeno da metà anni Novanta, che il Jobs Act ha prodotto più contratti a tempo determinato che posti fissi, soprattutto grazie alla politica degli incentivi per le imprese.
Ora, si può dare tutta la colpa alla comunicazione (anzi, alla narrazione di vendoliana memoria), e continuare a spiegare che in realtà va tutto bene e la buona occupazione sta tornando, finalmente, insieme alla crescita economica. Però la questione della precarietà e dei bassi salari e dello sfruttamento (e anche della scarsezza di lavoro, a dirla tutta) si pone, eccome. È un fatto di cronaca. Sta nella vita delle persone.
Si insiste spesso che c’è un gap di formazione da parte del sistema scolastico italiano, ma c’è anche un problema di scarso investimento in ricerca e sviluppo da parte delle imprese italiane, che sono ampiamente campate sull’intensità di manodopera più che su quella di capitali (o sono campate sui capitali pubblici).
E qui torniamo al 4 dicembre, che per Renzi è stato l’inverso del 18 brumaio di Luigi Bonaparte, si potrebbe dire. Convinto di vincere in forza della propria rottamazione e della modernità, il leader Pd infatti non ha capito l’aria che tirava nel Paese, ed è stato asfaltato dal mix di cui scrivevo prima: gentismo+precariato incazzato.
Questo non significa ovviamente che siamo all’anticamera del fascismo (come la crisi del 2007-2008 non era il 1929), come invece certa narrativa politica sembra suggerire, provando a indicare il M5s come un partito simil-fascio. Io insisto nella definizione di partito di massa antiliberista e revanscista, più che altro socialconfuso, anche per scelta calcolata (ma a forza di non scegliere, poi, il successo rischia di trasformarsi in una condanna).
C’è però un problema che chi vuole rappresentare ancora il mondo del lavoro e dei diritti democratici, e della solidarietà, si deve porre. Non basta cercare di convincere, bisogna anche ascoltare. In questo senso, quella di Renzi è risultata una promessa tradita, perché appunto è nata dalla percezione della necessità di una svolta, ma non ha saputo capire in che direzione.
Ma Renzi è anche il prodotto di una corrente politica, il Pd e l’Ulivo, che in particolare sul lavoro non ha saputo produrre una proposta nuova e autonoma, che coniugasse flessibilità, diritti e rete di protezione sociale, ma che ha partorito le solite nozze coi fichi secchi (con la solita storia del nostro deficit). Mentre in Italia, a proteggere le persone, continua ad essere, con tutti i limiti del caso (e sono tanti) la famiglia.