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Il sovranismo alimentare è una bufala

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madeinitaly

Ieri sera stavo preparando un po’ di hummus per cena – era solo gola, avevo già cucinato vari tipi di verdure – quando ho scoperto che sulla confezione di ceci della Coop che stavo usando (per fare l’hummus servono in sostanza ceci, limone, sale, aglio e tahina, una salsa a base di semi di sesamo) c’era scritto: Ceci 100% italiani.
Giorni fa, su una bottiglia di Fanta mi è capitato di leggere: Fatta con arance solo italiane.  Mentre sulla fiancata di un camion della Centrale del Latte che effettuava una consegna nel bar davanti a casa, mi ha colpito questa scritta: Latte di mucche solo romane, o qualcosa del genere. 
Ho la netta sensazione che la questione del “Made in” ci sia un po’ sfuggita di mano. E che stiamo facendo un po’ di casino tra sicurezza alimentare, lotta al cambiamento climatico e sovranismo (non sovranità, che è un’altra cosa) politico-alimentare, per scadere nel ridicolo.

Noi che viviamo in una parte del mondo sufficientemente benestante – dove normalmente non si muore di fame, ma casomai di disturbi legati all’alimentazione eccessiva e/o cattiva – tendiamo a pensare alla sicurezza alimentare come a una questione di qualità: la difesa del cibo da inquinamenti, contaminazioni, truffe (per esempio, nessuno leggerà mai su un’etichetta la scritta Mozzarella Made in Terra dei Fuochi, rivendicata con orgoglio…).
Nei Paesi in via di sviluppo si tratta invece soprattutto di una questione di quantità. Per intenderci: avere cibo a sufficienza. Questa è sovranità alimentare: la “politica che implica il controllo politico necessario ad un popolo nell’ambito della produzione e del consumo degli alimenti”, come recita la definizione del movimento altermondalista Via Campesina oltre 20 anni fa.
Il sovranismo alimentare, invece, è una bufala, basata sul principio che il cibo di casa mia è sempre mejo, quello di Compra italiano, di solito per le ragioni sbagliate.

In generale, è meglio consumare alimenti che provengono da località vicine piuttosto che lontane non tanto per una questione di qualità (no, non perché il cibo di casa mia è sempre mejo) ma principalmente per ridurre l’impatto dei gas a effetto serra prodotti dal trasporto dei beni. Poi ovviamente c’è anche la questione dei giusti tempi di maturazione, se volete, di evitare sistemi di conservazione troppo energivori e che possono alterare la qualità (il contenuto di vitamina C nelle verdure,per esempio, si riduce mediamente del 50%).
Certo, se poi l’insalata viene dall’orto del vicino che sorge lungo una strada trafficata ed è innaffiato con acqua contaminata, be’… allora forse è meglio andarla a comprare più lontano.

Ancora, è meglio consumare alimenti di stagione, sia perché secondo numerosissimi studi sono più nutrienti nel loro ciclo abituale di crescita, sia perché si evita di farli trasportare da luoghi lontani in cui magari crescono in quel momento (sempre per ridurre l’emissione di gas a effetto serra), o anche perché così non serve produrli in serra (cosa che implica un maggior consumo energetico). E, ultimo ma non ultimo, perché costano meno.
(È chiaro che questo discorso non vale, ad esempio, per le banane, che non hanno stagionalità, non crescono in Italia e si pagano poco, anzi, troppo poco: sia rispetto a quanto dovrebbe andare ai coltivatori, che vengono sottopagati, sia ai costi ambientali che alla fine paghiamo tutti. Senza parlare ovviamente del valore nutrizionale che cala con la conservazione).

Ancora: è meglio, in questa ottica di produzione locale e stagionale, che comunque deve sfamare un bel po’ di gente, disporre di più colture, più varietà vegetali, più varietà di cibo in generale, e non solo di grandi monoculture, o monoallevamenti, per una questione di sicurezza alimentare, cioè di fonti di approvvigionamento..

Torniamo all’hummus e ai ceci, alla Fanta e al latte.

Prima di tutto: si può cucinare un piatto mediorientale a Roma? Certo che sì. Perché è buono e per farsi un’idea di piatti diversi, e di culture alimentari diverse. Anni fa, invece, la giunta di destra a Roma eliminò i menù etnici, in nome, appunto di quello che oggi chiameremmo sovranismo alimentare. Cioè, prima i piatti italiani. O meglio ancora, prima i piatti romani.
Basterebbe ricordare che i pomodori vengono dall’America, come le patate, due pilastri della nostra alimentazione (anche il mais). Cioè, sono entrati nei nostri menù  da 500 anni o anche meno. Le tradizioni nascono dalle invenzioni, dalle scoperte.
Quella dell’agricoltura è una lunghissima storia di scoperte, incroci, trasferimenti, introduzioni. Lo stesso vale per la cucina, con buona pace dei sovranisti della forchetta.

I ceci, poi. I ceci sono una produzione agricola in recupero, in Italia, dopo la parabola discendente durata pochi decenni (da 110.000 ettari a 3.400 ettari coltivati a ceci in 50 anni). L’Italia è il 17esimo produttore mondiale di ceci, ma oggi è comunque costretto a importarne per soddisfare il consumo. Dagli ultimi dati di import, del 2017, si deduce che su 10 kg consumati in Italia, 6 kg sono importati. Quindi, il problema è che non produciamo abbastanza ceci, oggi, non che quelli prodotti all’estero non sono buoni come i nostri. E comunque, se poi mangiamo ceci conservati, non freschi, probabilmente cambierà poco se vengono dall’Italia o dalla Spagna, che è il primo produttore europeo.

Detto questo, le italianissime pasta e ceci, o la farinata, sono buonissime, se fatte bene. Ma anche l’hummus è buonissimo (se fatto bene). E sarebbe ancora meglio, come ho cercato di spiegare, se entrambi i piatti fossero preparati con ingredienti coltivati localmente, freschi. Ma ovviamente non sempre è possibile e non è un dramma, no?

Il latte delle mucche romane è migliore di quello delle mucche, che ne so, di Bologna?

Secondo i test di Altroconsumo, il latte della Centrale di Roma (quello fresco alta qualità), con origine dichiarata nel Lazio, è di qualità buona. Ma quello prodotto da Parmalat (proprietà della francese Lactalis), con origine genericamente in Italia, è meglio, e la qualità viene definita ottima. E costa anche meno.
Certo, per portare il latte della Centrale nelle case dei romani si fa meno strada, e quindi si inquina meno e si produce meno CO2. Ma è questo, quello a cui si riferisce il claim della pubblicità? O il messaggio è sempre quello? Prima i romani (prima i varesotti, prima i siracusani)?
(Sempre a proposito di latte, ma in in questo caso di pecora. La vicenda del prezzo basso pagato ai produttori di pecorino sardo, nei mesi scorsi, ha fatto venire allo scoperto una notizia significativa, e cioè quella che il famoso pecorino romano è fatto circa all’80% di latte di pecora sardo. E quindi? Prima il romano? O prima il sardo?).

La Fanta, come dovrebbero sapere tutti, è uno dei prodotti di punta della Coca-Cola Company, cioè la multinazionale per eccellenza, quella che ha inventato di fatto l’immagine e la tradizione di Babbo Natale come la conosciamo (con buon pace di quelli che ritengono Halloween un prodotto d’importazione amerikano lontano dalla nostra tradizione). È una bevanda gassata che dal marzo 2018 deve contenere – per legge – almeno il 20% di succo di frutta (fino a un anno fa conteneva il 12% di succo e anche il 12% di zuccheri, a leggere le etichette) Poi esiste anche la Fanta rossa Zero Zuccheri aggiunti con succo di arance Rosse di Sicilia IGP. Ovviamente non si tratta di una spremuta: le arance 100% italiane sono comunque quelle che fanno il succo concentrato, cioè il 20% del prodotto complessivo.
(Magari però siete sovranisti e non volete comprare la Fanta, nonostante usi arance di casa nostra, perché è americana. Allora comprate la Sanpellegrino, che è sempre fatta al 100% con arance italiane. Però, occhio: il marchio Sanpellegrino appartiene alla Nestlé, un’altra multinazionale, ma svizzera).

Preoccuparsi della qualità di un alimento è importante. La produzione locale è importante, per questioni di sicurezza alimentare (nel senso di disponibilità di cibo; ma non è sempre detto che sia a prezzi migliori, per le dinamiche dei mercati, che considerano il cibo una commodity), per l’impatto sul clima, per le qualità nutrizionali.
Tutto il resto, però, è soltanto slogan, tipo 100% italiano o Compra italiano.
Si può comprare un prodotto italiano, anche se la proprietà dell’azienda è straniera. Dal punto di vista del consumatore, e spesso anche del lavoratore, cambia poco. Si può mangiare un piatto straniero (facevo l’esempio dell’hummus, ma la cucina è piena di piatti un tempo stranieri) ma con ingredienti tutti locali. Infine, gli accordi commerciali internazionali sono importanti, anche per quello che riguarda il cibo. Ma dovrebbero sempre includere standard più alti di qualità e la disponibilità di cibo.

È una questione complessa, ma non è complicato da capire.


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